PRIMA DELL'OTTO SETTEMBRE.
C'ERA UNA VOLTA LA PATRIA.
DO YOU REMEMBER?
La Marcia della Giovinezza. Il Reggimento "Giovani Fascisti". L'epopea di Bir El Gobi.                                   


Tutta l'iconografia in disegni è di Sergio Bianchi Galagan, pittore e disegnatore, autore fra l'altrodi serie di cartoline iconografiche per "Militaria", nonchè della iconografia in genere relativa all'Associazione Volontari Bir el Gobi fra i reduci del Reggimento "Giovani Fascisti" (di cui è attualmente il Segretario Nazionale).Potete facilmente contattarlo alla "Piccola Caprera", Via Pozzolengo 1, 46040 Ponti sul Mincio (MN), Tel 0376/88104.

CAPO BON 13 MAGGIO 1943, LA RESA DEGLI INVINCIBILI Mezzo secolo fa su un'angusta lingua di terra della Tunisia, gli ultimi soldati d'Italia in Africa cedevano le armi dopo aver scritto pagine di eroismo
Massimo Zamorani
 
    
    Sospinti con le spalle al mare entro l'angusta lingua di terra di Capo Bon, in Tunisia, lunga 60 chilometri e larga venti, cinquant'anni fa gli ultimi soldati d'Italia in terra d'Africa cedevano le armi a conclusione di una campagna durata 34 mesi. Tra la sponda settentrionale africana e la madrepatria non c'era ormai più che la piccola Isola di Pantelleria, baluardo fragile come una coppa di cristallo, incapace di opporre una vera resistenza all'invasione. Era il principio della fine.
    Sulla linea di Enfidaville, stabilizzata il 30 aprile la 1a Armata italotedesca aveva resistito per dodici giorni. Due divisioni germaniche: la 90a e la 164a; quattro italiane: Trieste, Spezia, Pistoia, Giovani Fascisti e un reparto dell'Aeronautica. Piloti e avieri, in mancanza di aeroplani, combattevano come fanti: moschetto e bombe a mano. Erano divisioni striminzite: 35 battaglioni di scarsi effettivi contro 70 britannici inquadrati in quattro divisioni di fanteria e due corazzate, più una brigata. In quanto a mezzi gli Inglesi disponevano di 620 carri contro 94 italotedeschi, di 192 blindati contro 66, di 708 cannoni contro 680. Intanto si era fatta sotto anche la 5a Armata americana (sbarcata nell'Africa settentrionale francese l'8 novembre 1942) attestata sulla sinistra dell'8a britannica.
    Tra il 5 e il 6 maggio erano stati proprio gli americani a entrare a Tunisi e a Biserta, dopo che i carristi tedeschi della Goering avevano sferrato un disperato attacco, che inizialmente aveva ottenuto qualche successo, ma in un secondo tempo si era sfaldato in una miriade di scontri conclusisi malamente per i germanici con irrimediabili perdite di uomini e mezzi. Dopo la caduta di Tunisi i superstiti della 1a Armata del generale Giovanni Messe e della 5a germanica di von Vaerst erano ormai accatastati nel culdisacco di Capo Bon: mare a tergo a ponente e a levante, un muro di fuoco e acciaio di fronte. Dieci battaglioni distrutti, dissolti, e il fatto che anche la 4a Divisione indiana, la 2a neozelandese, la 51a britannica avessero subito gravissime perdite nella prima battaglia di Enfidaville non valeva a rendere la situazione migliore.
    Il 2 maggio gli italotedeschi non disponevano che di mezza giornata di carburante; esaurite le munizioni dell'artiglieria, controcarro inclusa. Il sistema di trasmissioni era distrutto il 4 maggio: i messaggi venivano ormai affidati a qualche motociclista o a portaordini a piedi.
    Il 9 maggio il generale von Vaerst invia parlamentari al comando della 5a Armata americana e il generale Omar Bradley accetta la resa. Nello stesso giorno l'8a Armata britannica scatena verso Nord un colpo d'ariete, che nelle intenzioni dovrebbe essere definitivo, ma la divisione Giovani Fascisti e la 90a germanica resistono, abbarbicate alla roccia. Tre pattuglie di giovani fascisti, al comando del tenente Baroni, riconquistano all'arma bianca quota 141, posizione chiave, e i bersaglieri del X° Battaglione, con fulminea azione, si impadroniscono di quota 130. Tre volontari, catturati dagli inglesi, vengono ammazzati a raffiche di Thompson.
    Alle 18 del giorno successivo il generale Jurgen von Arnim, comandante il Gruppo d'Armate italotedesco, si arrende e lascia alla l'Armata italiana libertà di decisione.
    Senza viveri, senza munizioni, senza protezione aerea, senza il supporto dei carri e il sostegno dei cannoni, sottoposti al continuo bombardamento dell'artiglieria e ai devastanti assalti dei cacciabombardieri, gli uomini dei capisaldi, trincerati dietro ripari di sassi, aspettano gli attacchi britannici, armi alla mano e occhi sbarrati. I carri Sherman procedono faticosamente, cercando un varco tra gli ostacoli di roccia, si muovono con difficoltà su piste strette e maltracciate, ma avanzano metro su metro, sotto la copertura della loro aeronautica.
    Le posizioni italotedesche sono isolate, circondate. Alle 17.30 del 12 maggio la 90a divisione leggera germanica, protagonista indomita di tutti i combattimenti nel deserto dal marzo 1941, si arrende ai britannici. Allora accade un fatto straordinario: il II° Battaglione Giovani Fascisti del capitano Baldassari occupa le posizioni evacuate dai tedeschi e vi si attesta. Gli inglesi si scatenano: partono all'attacco della linea abbandonata dai germanici e difesa dagli italiani. Vengono respinti, chiedono l'intervento dei cacciabombardieri che martellano vigorosamente quelle miserabili buche protette da mucchi di sassi. Ritenendo che l'intervento degli aerei abbia ammorbidito le difese, gli inglesi ripartono applicando la classica formula tattica della guerra del deserto: carri armati misti a fanteria. Gli uni proteggono l'altra e viceversa. Ancora una volta vengono bloccati davanti alle posizioni e non passano.
    Grottesco di guerra: mentre italiani e neozelandesi si scannano per impadronirsi di un'infingarda collinetta di sasso, già da un'ora e mezzo è pervenuto da Roma al comando di Messe l'ordine di cessare il fuoco e i parlamentari italiani hanno raggiunto Enfidaville per incontrarsi con i plenipotenziari britannici. Viene concordata una tregua.
    Alle 12.30 del 13 maggio gli ufficiali inviati a trattare rientrano dal comando del X° Corpo d'armata britannico e consegnano al generale Messe, che è stato promosso via radio maresciallo d'Italia, il documento con le condizioni di resa. ‘E tutto finito. Alle 14 Giovanni Messe, accompagnato da due ufficiali inglesi, saluta i suoi collaboratori e si allontana. L'armata italotedesca nel volgere di poche ore è diventata un branco di prigionieri.
    Il colonnello Sechi, comandante il reggimento Giovani Fascisti, fa in tempo a diramare ai battaglioni l'ultimo ordine del giorno: «Ufficiali, sottufficiali, volontari, ieri sera il generale Messe ha firmato la resa. ‘E un'ora triste per il nostro reggimento, perché il nemico verrà a occupare quelle quote che mai avete perdute. Pertanto ordino che tutto il materiale sia distrutto e che i volontari si presentino con l'uniforme e la persona in ordine. Sono fiero d'essere stato il vostro comandante e voi siate orgogliosi perché nessuno vi ha vinto. In questa tristissima ora il nostro pensiero vada ai Caduti e alla Patria lontana. Viva l'Italia».
    Il tricolore, issato per la prima volta in terra d'Africa sul promontorio di Buia che domina la baia di Assab, il 13 marzo 1870 (sei mesi e una settimana prima che a Roma) venne definitivamente ammainato il 13 maggio 1943 sulle petraie di Capo Bon. La vicenda africana dell'Italia era durata settantatré anni e due mesi.
 
 
IL GIORNALE    Quotidiano del .... 199...

 
CENNI STORICI SUL REGGIMENTO "GIOVANI FASCISTI"
 
 
   10 Giugno 1940: l'Italia, con la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, entra nel secondo conflitto mondiale. Animati da sincero entusiasmo e desiderio di partecipazione, venticinquemila giovani, provenienti dalle file della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), chiedono di essere arruolati volontari per raggiungere il fronte di combattimento. Il PNF (Partito Nazionale Fascista) stabilisce pertanto la costituzione di 25 battaglioni GIL, militarmente istruiti, che vengono impiegati in una marcia dimostrativa di 450 Km, denominata "Marcia della Giovinezza". Questa si conclude, come termine del periodo di addestramento, a Padova ove sono convenuti il Capo del Governo Benito Mussolini e le autorità militari per passare in rassegna i giovani volontari. (10 Ottobre 1940).
   Dopo la rivista, cui partecipano rappresentanze delle organizzazioni giovanili europee, i giovani apprendono, con profonda delusione, che i loro Battaglioni vengono smobilitati. Il malcontento è tale che il gruppo accampato alla Fiera campionaria di Padova arriva ad ammutinarsi, pur di non eseguire l’ordine. Vista la reazione dei volontari, si costituiscono tre Battaglioni Speciali che riprendono l'addestramento militare.
   Il Ministero della Guerra, in data 12 Aprile 1941, decide di trasformare i Battaglioni Speciali nella 301a Legione CC.NN., ma dopo una settimana, non avendo i Volontari della GIL ancora compiuto il periodo di ferma regolare, ed essendo la Milizia un apparato post militare, il Ministero della Guerra si affrettava ad emanare la disposizione n. 49640 del 18 Aprile 1941, che modificava la precedente disponendo la costituzione del "Gruppo Battaglioni GIOVANI FASCISTI" quale unità del Regio Esercito. Tuttavia è loro negata la qualifica di "volontario di guerra" e vengono arruolati come volontari ordinari, dopo il consenso firmato dei genitori. Nasce così una nuova e particolare unità dell'Esercito, totalmente composta di volontari, sia per quello che riguarda i soldati semplici che i sottufficiali e gli ufficiali.
   L'uniforme è quella normale della fanteria, con la differenza che al bavero portano fiamme a due punte rosse bordate di giallo (i colori di Roma e della GIL); come berretto di fatica viene adottato il fez nero dei reparti Arditi della prima guerra mondiale. (Sarà questo il solo copricapo portato orgogliosamente - con un pizzico di spavalderia - dai giovani volontari. Detto per inciso, a questo reparto non era stato consegnato elmetto).
   Il 29 Luglio 1941 il Gruppo Btg. GG.FF. sbarca a Tripoli (Libia) con compiti di presidio ad Homs e Misurata. Successivamente subisce trasformazioni in organici ed in armamenti e viene incorporato nel RECAM (Raggruppamento Esplorante del Corpo d'Armata di Manovra» e inviato a presidiare la zona di Bir el Gobi. Al momento di comunicare il loro impiego al Comandante del Gruppo, il Generale Gambara dice testualmente: "... Il compito è arduo; i volontari sono al primo combattimento, sono giovani...". La battaglia di Bir el Gobi inizia il 3 Dicembre e dura sino al 7. I combattimenti sono cruenti, vengono inflitte gravi perdite all'11a Brigata Indiana e a parte della 22a Brigata Guardie, accorsa in suo aiuto. Malgrado la notevole disparità di forze, i Giovani Fascisti fanno fallire il piano inglese (che prevedeva di dividere in due lo schieramento itato-tedesco), impedendo così alle forze alleate di raggiungere El Adem.
   Dopo l'aspra battaglia di Bir el Gobi il Gruppo viene aggregato alla Divisione Sabratha.Il Gruppo Btg.GG.FF.prende parte ai combattimenti di Buerat.
   Il 24 Maggio 1942, come riconoscimento al valore dei Giovani Fascisti, viene dato questo nome ad una Divisione corazzata.
   Il 22 Luglio il reparto è in parte aviotrasportato a Siwa (Egitto) per completarne l'occupazione. Il 30 Agosto muta la sua denominazione in quella di "Reggimento GIOVANI FASCISTI".
   L'esito della battaglia di El Alamein costringe la costituenda Divisione al ripiegamento, per evitare di essere accerchiata. L'8 Novembre la colonna militare abbandona Siwa, effettuando una sosta a Giarabub dove il presidio si aggrega alla colonna stessa. Il 18 Novembre i volontari raggiungono Agedabia, dopo aver faticosamente percorso circa 1000 Km., in gran parte su piste sconosciute, sotto gli attacchi dell'aviazione avversaria, che provoca perdite umane e di mezzi; nel ripiegamento sono andati perduti gli unici due carri armati M.14 della Divisione. Il Reggimento è ritenuto ancora efficiente al 95% e quindi impiegato come retroguardia a copertura delle forze italo-tedesche.
   Gennaio 1943: con l'abbandono della Libia, il Reggimento partecipa a diversi combattimenti e nel Febbraio si attesta sulla ex linea fortificata francese al Mareth (Tunisia). In questo periodo giunge dall'Italia il III° Battaglione che viene sciolto per reintegrare le perdite del I° e del II°. La battaglia del Mareth, 17-30 Marzo, vede i volontari impiegati in violenti combattimenti, rioccupando alcuni capisaldi all'arma bianca. Ma il ripiegamento della Ia Armata è inevitabile. Il Reggimento si batte ancora all'Akarit Chott per poi attestarsi sull'ultima linea di resistenza a Enfidaville. Subisce perdite negli scontri della prima e della seconda battaglia di Enfidaville, avvenute rispettivamente dal 19 al 30 Aprile e dal 9 al 13 Maggio. Nel corso di queste battaglie il Reggimento difende tenacemente, anche all'arma bianca, la quota 141 più volte perduta ma rimasta in sua mano sino alla cessazione delle ostilità.
   Il 13 Maggio, per ordine superiore giunto da Roma, il Reggimento è costretto alla resa, dopo aver distrutto o bruciato armi e materiale. Le fiamme di combattimento del II, e III, Battaglione vengono internate assieme ai documenti; quella del I è invece suddivisa in diciassette parti e consegnata a volontari ed ufficiali affinché la ricompongano una volta rientrati in Patria*. Il reparto perse la metà degli effettivi. Il sacrificio dei Giovani Fascisti è comprovato da 2 Medaglie d'Oro al V.M. e da 117 altre decorazioni.
   Il Reggimento Giovani Fascisti è stato l'unico reparto del Regio Esercito Italiano ad essere totalmente composto da Volontari. E' anche l'unico reparto a non aver ricevuto la "Bandiera di combattimento".
 
*La fiamma è stata ricostruita in parte e si trova nel Museo Reggimentale.
 
 

PREFAZIONE DELL'AUTORE
da Il REGGIMENTO “GIOVANI FASCISTI” NELLA CAMPAGNA DELL’AFRICA SETTENTRIONALE 1941-1943 di Antonio Cioci
 
 
    Non mi sono posto alcun fine specifico con la raccolta della documentazione, che è servita a mettere assieme questo libro, ma ho inteso soltanto offrire una testimonianza e richiamare il ricordo dei camerati d'arme caduti. Lo meritano anche loro, assillati come siamo, da troppo tempo, dalle querimonie di tanti reduci affranti da sofferenze mai patite o, peggio, stanchi per guerre mai combattute, eppur vispi nell'avanzare richieste di risarcimenti e più ancora di riconoscimenti.
    Il contenuto del libro potrebbe anche essere considerato di natura storica, nonostante appaia evidente che non ambisce a tanto e non solo in quanto offre uno scorcio limitato nel gran quadro del conflitto, ma anche perché è semplicemente una registrazione fedele di fatti, secondo una cronaca scarna.
     Posso solo augurarmi di offrire uno spunto allo storico per ricostruire, sul materiale raccolto, un passato di grandi entusiasmi e di fede, che vide il popolo italiano impegnato come protagonista in una fase drammatica della storia di questo secolo ed infine, sommessamente sperare che nel futuro un poeta scopra l'ispirazione, per cantare la virtù dell'uomo eroe, secondo l'epos, che sostituisce la ragione nell'afferrare il senso oscuro della storia ed accende la fiamma della fede, confortatrice e giustificatrice dell'azione.
    Non si può tuttavia, ai fini di una più completa valutazione, ignorare che si tratta di fatti aventi un particolare significato, perché riconducibile, come matrice, ad un fenomeno specifico e, per questo, intimamente legato ad una esperienza storica del popolo italiano. La stessa denominazione assunta da questa unità del Regio Esercito è una caratterizzazione e costituisce, tra l'altro, un fatto unico nella storia delle Forze Armate, che mai hanno ufficialmente accolto formazioni volontarie con estrazione tipizzata. Infatti l'atipicità, secondo regola, è stata puntualmente cancellata alla fine del conflitto, sí che l'ordine non è stato turbato.
    E' una storia che può oggi apparire inattuale, ma credo sia giusto raccontarla perché appartiene al nostro passato e quindi a noi tutti. Non è nemmeno accaduta molto tempo fa, seppur sembri che tutto sia nel frattempo mutato e concorra ad allontanarla, se non a dimenticarla. Molti dei sopravvissuti di quella esperienza sono ancora in giro confusi nella folla anonima e disincantata ed io, che sono uno di loro, mi sono assunto un compito non facile, affinché il ricordo non sbiadisse del tutto.
   Naturalmente mi sono chiesto come la mia fatica sarebbe stata accolta ed ho anche avuto qualche perplessità, perché i più sono distratti od hanno ricevuto una visione della storia di ieri, che, creata a posteriori per giustificare il contrario di tutto, ha finito per escludere le ragioni obbiettive e per rappresentare le interpretazioni distorte.
    Nel corso delle mie ricerche, però, m'ha consolato constatare che fuori d'Italia le idee sono più chiare e sono stato trattato, come m'aspettavo, con la calda simpatia dovuta, tra veterani, al vecchio nemico.
    E' certo che sul ruolo che gli italiani hanno avuto nel secondo conflitto mondiale, pesa, in senso riduttivo, la discussa fase politicamente avviata alla fine del 1943. La regola, tuttavia, è ferrea e non può essere elusa; una guerra comporta che si accetti il ruolo di protagonisti, non solo per la partecipazione, ma anche per la consapevolezza del suo profondo significato di scontro tra popoli portatori d’interessi diversi; oppure che si rinunci al ruolo di protagonisti sia per mancanza di fiducia nel destino del proprio popolo che per stanchezza o, peggio, per defezione. Nella seconda ipotesi, chiaramente, si accetta un ruolo subordinato nei confronti di chi ha assunto la prima. Non regge una giustificazione di carattere ideologico, magari costruita a posteriori, e sicuramente non salva l'onore del proprio paese. I popoli in guerra debbono perseguire un solo fine e tendono a conservare o ad imporre una egemonia. Dovrebbe essere una conclusione evidente, semplicemente esaminando le dure condizioni di pace, che ci furono imposte. Chi ha, dunque, rifiutato, durante o dopo la guerra, il ruolo di protagonista invocando il nome della libertà o la lotta al totalitarismo, in effetti ha favorito il nemico, quando non ha perseguito lo scopo ultimo di raccogliere i benefici della situazione mutata.
    Mi pare sia doveroso affermare queste elementari verità, perché la dignità di un popolo può essere salvata anche nel caso di una sconfitta, sempre che sia onorevolmente subita, ma non si salva certo con i sofismi.
    E così ho preferito occuparmi di fatti, quelli che ho vissuto accanto ai miei meravigliosi compagni d'arme, senza addentrarmi nel groviglio dei distinguo.
    Allo scoppio della guerra migliaia di giovani s'offersero volontari e fu grave errore se oltre 20.000 di essi furono mortificati e rimandati a casa, sì che solo 2387 costituirono, dopo penose vicende, il «Reggimento Giovani Fascisti». Alla stregua dei fatti l'Esercito avrebbe potuto contare su 10 Reggimenti altrettanto validi. Quei giovani accorsero da ogni parte d'Italia, dalle scuole, dai campi, dalle officine, diversi per estrazione ed istruzione, ma legati da un unico, ben preciso ideale. Era indubbiamente quello stesso ideale, ma ancor più concreto ed attuale, che ispirò i giovani del Risorgimento alla lotta per l'indipendenza, perché, anche raggiunta l'unità, ogni guerra è guerra d'indipendenza, quando una nazione tenta di liberarsi dai vincoli che la stringono nel proprio territorio e nel proprio mare. Essi avevano compreso che la seconda guerra mondiale costituiva una alternativa decisiva per il futuro, non solo dell'Italia, ma dell'intera Europa. Era dunque qualcosa di più delle guerre risorgimentali e le condizioni in cui versano l'Italia e l'Europa di oggi confermano queste interpretazione.
    Spero che la mia testimonianza riesca a lumeggiare di quanta generosità e dedizione fu permeata la loro offerta alla Patria e che si riscopra il profondo significato di un evento unico, che sarebbe, nella piatta realtà attuale, purtroppo, inconcepibile ed irripetibile. Basterebbe quest’ultima considerazione per giustificare il libro, dato che nessuna società, anche la più disinvolta e superficiale, potrebbe permettersi di dimenticare nella sua storia eventi cosí significativi. Se lo facesse o, ancor più, se li rifiutassi, mostrerebbe di aver totalmente perduto ogni consapevolezza dei propri mezzi e della propria vitalità e si condannerebbe a rinunciare al lievito più spontaneo delle proprie energie. Rinunciare ad un patrimonio da offrire alle generazioni che seguono e che rappresentano la continuità della vita di un popolo, creerebbe un vuoto non più colmabile.
    Ne è un esempio quello in cui vagano i giovani di oggi, dopo aver accettato di cancellare i valori di una società nazionale ed aver preteso di superarli senza averli memorizzati. Purtroppo la nuova generazione non sa quanto è mancato a quella che l'ha preceduta, quella che ha combattuto senza successo e che voleva preparare un mondo migliore. Se i giovani, oggi, riflettessero sul duro prezzo pagato dai più anziani, potrebbero trovare una risposta ai numerosi interrogativi che li travagliano e sarebbero portati a solidarizzare con loro.
    Se questo libro riuscirà in qualche modo a stimolare un ripensamento sulla crisi comune, che può definirsi d'identità, certo avrà raggiunto un risultato, che darà ancor più significato al suo iniziale assunto di testimonianza e di memoria.
    Perciò confido che in questa cronaca di guerra, sia pure scarna e corredata di brevi considerazioni, i giovani che vorranno leggerla possano ritrovare stati d'animo nei quali forse riconoscersi, anche se si sono manifestati in un clima di rischio e di pericolo ad essi sconosciuti. Mi auguro, inoltre, che essa sia obbiettivamente soppesata e valutata, anche se non è proprio del genere che corre oggi, e spero, quindi, che non venga aprioristicamente rifiutata.
    La scelta della forma nell'esposizione dei dati, che ho raccolto, non è stata facile, non tanto perché completamente sprovvisto di una qualsiasi preparazione letteraria, quanto, piuttosto, perché si tratta di contenuti, di stati d'animo, che sono quelli che sono e cioè assolutamente ignorati o dimenticati dalla storia di oggi, la quale si è ispirata ad una visione creata da coloro, che si sono assunti il diritto di imporla, dopo aver fissato quanto giustificava le loro tesi.
    Mi è stato suggerito di usare un certo tono distaccato, quasi scanzonato, tanto per non dispiacere. Certo non ho drammatizzato ed ho sufficiente esperienza di vita per guardare le cose in modo pacato, ma l'argomento ha un significato preciso e non lo si può forzare per riadattarlo alle mode correnti. In più a me pare un fatto molto serio che 893 giovani su 2387 siano caduti sul campo, 104 successivamente morti per ferite o malattie, 391 risultino dispersi in Libia e Tunisia, cosicché, sommando, sono 1388 le perdite in totale.
    Proprio nell'epoca che quantifica, il bilancio dovrebbe apparire pesante. Erano giovani in parte ancora imberbi e certamente non smaliziati o preoccupati dell'utile e del dopo; debbono essere ricordati con fierezza e con riconoscenza, rievocando le loro azioni ed i loro sacrifici con la stessa schiettezza e la stessa semplicità con cui li hanno compiuti. Conservare il loro ricordo e chiarire le ragioni per le quali sono morti è il compito di questo libro, in modo che essi non siano morti invano. Non credevano di rappresentare un mondo destinato a scomparire sulle difese di ciò che crollava, proteggendo principi superati, ma al contrario, credevano di essere la forza vitale di un popolo, che cresceva espandendosi e che tendeva a mutare gli assetti internazionali precostituiti, secondo il ritmo eterno della storia, portando nello stesso tempo idee innovatrici per un nuovo assetto sociale.
    Se lo sforzo non è stato premiato dal successo, potranno rimanere l'amarezza e la delusione, ma non certo l'angoscioso distinguere a posteriori tra il giusto e l'ingiusto, secondo dettami che stranamente coincidono con quelli che i beneficiati dal risultato hanno fissato.
    Con quei valorosi caduti è andata sicuramente perduta una parte di noi stessi, ma ci hanno anche lasciato un'eredità di sentimenti e di virtù civili, che noi abbiamo il dovere di conservare e di trasmettere alle giovani generazioni di oggi e di domani. Potremo sempre affermare che cercammo, combattendo per la nostra Italia, di migliorare le condizioni del suo popolo e che solo questa è la parte che abbiamo avuto senza pretendere né ricevere premi.
    La sorte che ci toccò, anzi, non poteva essere più sfortunata: - negletti all'inizio perché troppo giovani, accantonati poi per le beghe tra Stato Maggiore e Partito, sopportati dopo esserci conquistati il rispetto del nemico, dimenticati alla fine perché il marchio d'origine consigliava d'ignorarci.
    Non avemmo neppure il conforto di un interessamento di un qualche sociologo, di quelli tanto premurosi nelle ricerche a monte, sebbene il nostro caso offrisse motivazioni quanto mai stimolanti per analizzare il dramma di una gioventù, che aveva visto infrangersi tutti i suoi sogni e vanificarsi anche il sacrificio della vita.
    Quei giovani, fatti ormai uomini dal tempo e dall'asprezza della lotta combattuta sino in fondo, tornarono alle occupazioni civili, semplicemente, senza lamentarsi od imprecare. Essi rappresentavano davvero l'uomo nuovo di cui si parlava, elemento fattivo e cosciente di una società diversa, con pienezza di diritti e delle relative responsabilità, uscito dalla dura prova di una guerra di popolo, esempio storico di un tipo di gioventù preparato spiritualmente e fisicamente.
    I giovani di cui scrivo ebbero una preparazione specifica: - innanzitutto una rigida disciplina nei ranghi che produceva, all'interno dell'unità, una funzionalità pressoché perfetta, in cui persino il graduato, proveniente dalle stesse fila, otteneva, per spontanea accettazione, una pronta obbedienza; un addestramento, che ripetuto per lunghi mesi e sopportato con caldo entusiasmo, realizzava una invidiabile capacità di esecuzione articolata in tempi minimi, sicuramente al di sotto di quelli giudicati ottimi negli schemi addestrativi; uno spirito di corpo elevatissimo che era non solo una rivalsa contro tante incomprensioni e frustrazioni ma anche una manifestazione di cosciente responsabilità per la denominazione assunta.
    A far data, poi, dal Novembre 1941, vigilia dell’impiego nella seconda battaglia di Marmarica, i Giovani Fascisti ebbero una trasformazione nell'organico del reparto assumendo, in via sperimentale, quello che i manuali denominarono successivamente «tipo AS». Esso articolava il Battaglione su un plotone comando ed un plotone mortai da 81 (4 pezzi), più 3 compagnie, ciascuna armata di 2 controcarro 47/32, 2 controcarro da 20, 3 controcarro da 13, 3 mitragliatrici, 9 fucili mitragliatori.
    La potenza di fuoco, quindi, era superiore a quella di cui disponeva la vecchia struttura dell'Esercito, ancora immobile alle esperienze del '15/18, modificata attraverso le campagne d'Africa Orientale e di Spagna, ma nei limiti di una alleggerita composizione delle unità.
    Il Reggimento Giovani Fascisti s'è comportato con onore e con valore nella campagna dell'Africa Settentrionale e tuttavia non ha avuto né una bandiera né una decorazione; è assai improbabile che qualcuno lo ricordi, almeno nella cronaca della storiografia corrente già tanto pudica nel trattare, anche a grandi linee, le vicende dell'ultima guerra. Chi leggerà questo libro, veritiero sino al dettaglio, si renderà conto che questi mancati riconoscimenti e, ancor peggio, questo silenzio, non sono propriamente atti di giustizia ed apparirà chiaro che, anche senza onoranze paludate, nessuno potrà cancellare i sogni e le speranze, il valore ed i tanti morti, che i Giovani Fascisti hanno lasciato sulle sabbie della costa mediterranea d'Africa. Come ultima consolazione resterà l'apprezzamento del nemico.
    Con la resa in Tunisia, preludio all’armistizio ed all'uscita dell'Italia dalla guerra, finí il sogno di affermazione e di primato che generazioni d'italiani attraverso le tre guerre risorgimentali e, quarta in ordine, la prima guerra mondiale, avevano accarezzato come meta al raggiungimento degli obbiettivi di carattere continentale. Infatti la seconda guerra mondiale ne avrebbe dovuto rappresentare la necessaria fase di ulteriore sviluppo, cioè quella spinta oltre i mari, che venne inesorabilmente arrestata dall'andamento negativo del conflitto. Con la fine dello sforzo italiano, collegato a quello germanico e giapponese, venne meno il tentativo di rovesciate gli equilibri esistenti e se gli Stati del Tripartito non riuscirono a tanto, è pur vero che la potenza anglo francese è stata ridimensionata e che un nuovo assetto s'è creato, secondo il quale le potenze continentali extra europee si sono poste di fronte.
    Riempire il vuoto dentro cui è sprofondata l'Europa e ridare un ruolo al vecchio continente dovrebbe essere il compito delle nuove generazioni. Sempre che non dimentichino la storia di ieri.
 
 l'Autore 
 
IL REGGIMENTO "GIOVANI FASCISTI" IN AFRICA SETTENTRIONALE 1941-1943 di Antonio Cioci. Associazione Volontari Bir el Gobi fra i reduci del Reggimento "Giovani Fascisti" "Piccola Caprera", Via Pozzolengo 1, 46040 Ponti sul Mincio (MN), Tel 0376/88104
La nuova edizione (1998, arricchita nei testi e nell'iconografia) è invece curata dall'Editore Albertelli e reperibile, contrassegno (lire 100.000) al seguente recapito: ERMANNO ALBERTELLI EDITORE, Via S. Sonnino 34, 43100 Parma, Tel e Fax 0521-290387.

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